
Retroscena
Una visita al produttore dei nostri caricabatterie
di Simon Balissat
In un buco nelle Alpi svizzere, ricercatori di tutto il mondo stanno studiando una soluzione per conservare in sicurezza le nostre scorie nucleari per migliaia di anni. Nessuna luce naturale – ma una coppia di innamorati.
Il Passo del Grimsel è chiuso in questa mattina di gennaio dopo il villaggio di Guttannen, così come accade sempre in inverno. Il fotografo Thomas ed io siamo gli unici visitatori. Non c’è anima viva che si avventuri fin qui in questo periodo dell’anno. Una località sperduta in perenne penombra. Solo le cime dorate e splendenti delle montagne molto al di sopra di noi lasciano intendere che il sole sia già sorto. Sono le nove e mezza del mattino quando ci fermiamo davanti a un portone. Qui, nel cuore della catena montuosa tra l'Oberland Bernese e la Valle di Goms, i ricercatori della «Società cooperativa nazionale per l'immagazzinamento di rifiuti radioattivi» (in breve Nagra) guardano nella sfera di cristallo. La domanda a cui vogliono trovare risposta è destinata a durare per l'eternità: dove seppellire le nostre scorie nucleari in modo che siano al sicuro per un milione di anni? [[fullsizeimage:32223548]]
Il portone nella montagna funge da accesso a un labirinto sotterraneo, costruito nella roccia per diventare la centrale elettrica situata all’altezza del passo. «Qui Nagra gestisce una specie di laboratorio sotterraneo a noleggio», afferma il responsabile del laboratorio Ingo Blechschmidt. Si trova a due chilometri di profondità nel granito del massiccio dell'Aare, a 1730 metri sul livello del mare. Lo strato di roccia soprastante è spesso ben 450 metri. Davanti all'ingresso, un cartello in quattro lingue – nessuna delle quali è lingua nazionale – ci avverte che è vietato attraversare il labirinto in auto. «In estate, i turisti si smarriscono spesso addentrandosi qui dentro. Dopo l’ingresso con un veicolo, il cancello rimane aperto per un breve periodo di tempo, per cui poi viene erroneamente scambiato per un tunnel», spiega Ingo Blechschmidt, mentre il cancello si apre lentamente nella roccia. Ci porge i gilet catarifrangenti secondo il regolamento, che noi ci affrettiamo ad indossare.
Gli occhi devono prima abituarsi all’oscurità, poi ecco che appare la galleria. Le pareti rocciose spoglie e irregolari sono larghe quanto un'auto. I tubi al neon sul lato sinistro della galleria emanano luce, sopra di essi si snoda un canale di cavi. È il completo contrario dei tunnel stradali perfettamente realizzati secondo gli standard elvetici. La strada nella galleria è accidentata, ha decine di buche e avrebbe bisogno di essere risanata. È come se fossimo dietro le quinte di uno spettacolo: le montagne e il lago artificiale sono la bella facciata in stile Disneyland, e da qui dentro i tecnici conservano l'idilliaca illusione.
Al centro della galleria, Blechschmidt parcheggia l'autobus in una piccola piazzola. «Eccoci qua. Area 51!», dice scherzando e scende dal veicolo. Il geologo dirige il laboratorio da tredici anni. Originario della Turingia, ha conseguito il dottorato di ricerca a Berna alla fine degli anni Novanta. Dal 2004, la galleria è il suo luogo di lavoro – almeno uno o due giorni alla settimana. Il resto del tempo lo passa al quartier generale di Wettingen o in viaggio. Il suo laboratorio si trova dietro una porta nella roccia, segnalato da un'insegna al neon. Lì, Ann-Sofi Dorrer ci accoglie scrutandoci attentamente. «Non avevi dei gilet catarifrangenti arancioni per i visitatori? Quelli gialli sono solo per i dipendenti», chiede a Ingo. «No, questi sono i miei gilet d'emergenza», spiega Blechschmidt e aggiunge che qui Ann-Sofi si occupa della sicurezza. «Ma soprattutto del benessere degli ospiti», dice Ann-Sofi e ci indica la strada per la sala conferenze. Gli ospiti sono ricercatori di tutto il mondo o gruppi di visitatori che visitano il laboratorio nella roccia durante le visite guidate in estate. Oggi siamo gli unici visitatori qui.
La parte in cui ci troviamo è un'ala per uffici, costruita durante la fondazione negli anni '80. Ha un aspetto inconfondibile. Il laboratorio potrebbe servire come set cinematografico per un film dell'orrore di quei tempi, in cui un esperimento va male provocando la mutazione di un ricercatore in un mostro a causa di un’esposizione radioattiva troppo elevata. Comunque, qui nessuno maneggia materiale radioattivo. L'ala anteriore è composta da uffici, un laboratorio, una cucina e una sala riunioni. Ann-Sofi ci porta il caffè, mentre Blechschmidt, il responsabile del laboratorio, ci spiega cosa si sta studiando qui sotto nella montagna.
«Nagra è la società di raccolta delle scorie nucleari.» Il suo obiettivo è quello di seppellire le scorie radioattive in modo che rimangano al sicuro nel sottosuolo per un milione di anni, senza sorveglianza. In pratica, chi s'è visto s'è visto. È un lasso di tempo inimmaginabile. Per evitare spiacevoli sorprese, il materiale radioattivo deve essere collocato nel sottosuolo nel modo più sicuro possibile. Terremoti, erosione o acqua non devono danneggiare i rifiuti, in caso contrario la catastrofe è imminente – cosa su cui gli oppositori del deposito continuano costantemente a mettere in guardia. Lui come affronta questa situazione? «Io sono geologo. Il mio lavoro è quello di smaltire le scorie nucleari in modo sicuro. Non sono stato io a creare i rifiuti. Ciò non toglie che ne siamo pieni e ora dobbiamo trovare una soluzione», ribatte Blechschmidt.
L'organizzazione è finanziata secondo il principio della responsabilità, in questo caso: chi produce scorie radioattive paga. Oltre alle centrali nucleari, tra questi ci sono anche ospedali e università. Attualmente la Svizzera raccoglie ancora le sue scorie nucleari in un impianto di stoccaggio provvisorio a Würenlingen, in Argovia. La soluzione brevettata per l’immagazzinamento definitivo in Svizzera non è ancora stata trovata. Nessuno sa come sarà la Svizzera tra un milione di anni. I ricercatori possono solo fare ipotesi basate sul passato. «Quando il laboratorio sotterraneo qui al Grimsel fu costruito più di 35 anni fa, lo stato della ricerca era completamente diverso», afferma Ingo Blechschmidt. «Credevamo che la roccia di granito, così come si presenta al Grimsel, fosse la soluzione migliore. Oggi sappiamo che la cosiddetta argilla a opalinus è il materiale più adatto in Svizzera.» L'argilla a opalinus si trova nel Giura e nel nord della Svizzera, dove il rischio di grandi spostamenti è minore. «Abbiamo quindi aperto un secondo laboratorio sotterraneo nel Giura», spiega il responsabile del laboratorio. L'attuale progetto della Svizzera prevede la costruzione del deposito a circa 600 metri di profondità in uno strato naturale di argilla a opalinus. Le scorie nucleari vengono collocate in contenitori d’acciaio, e questi nel deposito. Il granito, come qui al Grimsel, non è più un'opzione da prendere in considerazione per un deposito.
Ciononostante, Nagra continua la sua ricerca al Grimsel anche grazie ai suoi partner internazionali molto interessati alla ricerca in Svizzera nonché co-finanziatori del laboratorio nella roccia. Una ricerca che sembra aver dato i suoi frutti: il primo deposito al mondo sarà infatti messo in funzione quest'anno in Finlandia. È costruito nel granito poiché, data la sua diversa geologia, sembra essere la soluzione ideale in Finlandia. Le conoscenze del laboratorio sotterraneo del Grimsel hanno contribuito a questa decisione.
«Vuoi un altro caffè?», chiede Ann-Sofi Dorrer con un leggero accento. Nata in Svezia, da dieci anni si occupa della sicurezza e del benessere dei dipendenti e degli ospiti della galleria. Un lavoro al 50%. Da cinque anni anche suo marito René lavora qui come responsabile delle operazioni. Che i due passino ora gran parte del loro tempo insieme in un buco nella montagna, non era previsto. Un tempo René si occupava dell’assemblaggio di turbine a gas e ha girato il mondo per lavoro per ben otto anni, visitando tra l’altro l’Asia e il Medio Oriente. Fu durante questo periodo che conobbe Ann-Sofi. Non a Dubai o a Giacarta, ma al Passo del Brünig, dove Ann-Sofi lavorava come sottocuoca per una stagione. René tornò in Svizzera per amore, Ann-Sofi vi restò per amore. Tentarono insieme la loro fortuna la prima volta fino al 2007 nell'Oberland Bernese, dove René trovò lavoro presso le centrali elettriche. All’epoca, però, qualcosa non quadrava. Oggi René la definisce una «inquietudine interiore» che lo spinse a tornare all'estero dopo la nascita della loro figlia. Decise quindi di partire per l’Olanda. Durante questo periodo Ann-Sofi visse in Svezia con la figlia. Per un buon anno e mezzo rimasero separati geograficamente, cenando comunque insieme ogni giorno via Skype. Infine, dieci anni fa la giovane famiglia ha trovato la propria felicità a Meiringen, dove Ann-Sofi è stata assunta presso il laboratorio sotterraneo. L’inquietudine interiore apparteneva al passato: la famiglia Dorrer si è definitivamente stabilita nell'Oberland Bernese.
René cammina qualche metro davanti a noi e scompare dietro una porta blu. Lo seguiamo nel cuore del laboratorio. È una galleria circolare, scavata con una macchina scavatrice. Le pareti sono levigate in modo da assomigliare quasi a un piano di lavoro in granito della cucina.
Lungo le pareti laterali ci sono dozzine di fori di tutte le dimensioni; da qui spuntano cavi collegati a strumenti di misura. Un solo foro non è pieno di cavi, in esso si trova una figura di legno. «Questa è Santa Barbara, patrona dei costruttori di gallerie», afferma Blechschmidt con indifferenza. È qui per spiegare il suo lavoro, non per parlare di religione. Noto uno strano congegno sul muro. Tra due aste avvitate orizzontalmente nel muro pende un manufatto, protetto da un cubo di plexiglass. Alla Art Basel, questa installazione passerebbe facilmente per un'opera d'arte costosa. Esaminando più attentamente, noto che il congegno è montato esattamente sopra una crepa nel muro. Lì, il granito liscio è attraversato da una linea leggermente più scura e frastagliata: «I ricercatori sono particolarmente interessati a queste cosiddette zone di interferenza perché qui può scorrere l'acqua», spiega Blechschmidt. Qui la roccia si muove più che altrove. Il congegno Art Basel misura questo movimento in modo sorprendentemente analogo. Due lastre di vetro sovrapposte indicano il minimo movimento non appena si muovono l'una contro l'altra. Ogni due ore le webcam scattano una foto delle lastre e inviano le immagini alla Repubblica Ceca per la valutazione. «I nostri colleghi della Repubblica Ceca ci hanno chiamato ultimamente per chiedere se andava tutto bene, poiché avevano rilevato un forte terremoto. Qui non abbiamo notato nulla. Alla fine si è scoperto che in quel momento una classe stava facendo una visita guidata e probabilmente qualcuno ha toccato l'esperimento», afferma Blechschmidt. Da allora, il dispositivo è protetto dagli alunni curiosi dalla scatola in plexiglass.
Il responsabile del laboratorio Blechschmidt guarda il suo orologio. «A breve c’è la pausa pranzo. Dobbiamo andare oltre, altrimenti non ci sarà abbastanza tempo per la zona controllata», dice, affrettandosi verso un tunnel laterale. È qui che per la prima volta vedo il caratteristico segno di avvertimento a raggi neri: qui vengono fatte ricerche sul materiale radioattivo. «Siamo gli unici a poterlo fare a livello internazionale», afferma Blechschmidt – si nota dell’orgoglio nelle sue parole. Per me, invece, l'emozione predominante è la paura, mentre mi metto un camice bianco e ascolto le istruzioni. Il responsabile del laboratorio sembra notarlo. «Non devi preoccuparti. Attualmente non ci sono esperimenti in corso e comunque qui abbiamo solo dei deboli cocktail radioattivi», dice Blechschmidt con tono di voce scherzoso. Mi fido di lui, anche se il termine «cocktail radioattivo» non è molto rassicurante.
La zona controllata è il regno del chimico Michael Treuthardt. Attualmente sta testando la radioattività su due campioni e a questo scopo ha allestito una scatola di piombo. Il piombo blocca le radiazioni. Chiunque abbia mai fatto una radiografia in vita sua lo sa. Michael misura i campioni con un contatore Geiger. Il contenitore di piombo, però, non ha lo scopo di proteggerci dalla radiazione dei campioni, ma di proteggere i campioni dalle radiazioni naturali dell'ambiente. Poiché il granito è leggermente radioattivo, il contatore Geiger rileva anche fuori dalla scatola. Non appena Michael sposta il contatore Geiger nella scatola, misura solo la bassa radioattività dei campioni. È quasi rassicurante che i campioni emettano meno radiazioni rispetto all'ambiente circostante.
Venti metri più avanti, nella zona controllata, il tunnel è poi sostenuto da una struttura gialla in acciaio. Cavi e contatori sporgono dalle pareti. Il rivestimento giallo e i numerosi strumenti di misura fanno sembrare questa zona un sottomarino. A dire il vero, il progetto è stato realizzato da un'azienda specializzata in sommergibili. «Yellow Submarine»: ecco come viene chiamata con affetto questa parte del laboratorio da Ingo Blechschmidt. «Questo non è un supporto, ma una guarnizione sovradimensionata», mi dice e mi spiega qualcosa sulle differenze di pressione tra galleria e roccia e che queste differenze di pressione sono compensate dalla costruzione. A questo punto le spiegazioni superano la mia immaginazione. Solo quando il responsabile del laboratorio mi spiega che ci sono voluti otto anni dalla progettazione alla costruzione, sono di nuovo presente. Gli esperimenti a lungo termine necessitano anche di una pianificazione a lungo termine. Per essere sicuri che nulla vada storto, i ricercatori hanno lavorato alla concezione del progetto per quasi un decennio.
Mi rendo conto che non potrei mai lavorare qui: potrei abituarmi alla scarsità di luce naturale, ma di certo non ai progetti a lungo termine. Nella mia precedente carriera professionale, ho cambiato lavoro al massimo dopo cinque anni. Nel laboratorio sotterraneo, dopo cinque anni, la pianificazione degli esperimenti non viene neppure portata a termine. Questo è un mestiere per tutta la vita. Un mestiere per il quale il responsabile del laboratorio sembra essere nato. È entrato a far parte di Nagra nel 2004 e dal 2007 è responsabile del laboratorio. «C'è bisogno di idealisti. Amo questo lavoro. Soprattutto questo spirito di internazionalità mi dà la sensazione di lavorare per qualcosa di più grande. Siamo ancora agli inizi. Il primo deposito di scorie nucleari del mondo sta arrivando in Finlandia, e decine di altri lo seguiranno in tutto il mondo. Questo è un lavoro pionieristico.»
Non tutti condividono questo entusiasmo. «Molti non ce la fanno a stare qua. Ho già avuto una candidata che se n'è andata dopo un'ora di prova.», racconta Blechschmidt sulla via del ritorno nell'ala dell'ufficio. Ecco perché è ancora più grato di poter contare su anime fedeli come la coppia Dorrer.
Per loro non è stato un problema passare dalla vastità mondo e da un rapporto a distanza a una stretta galleria, dice Ann-Sofi. «Ho lavorato nei grandi magazzini e neanche lì c'è luce naturale. Paradossalmente è molto più piacevole lavorare qui. Meno frenetico.» René è d'accordo con lei: «Il lavoro qui è molto vario. Preparo i fori per gli esperimenti, li controllo e mi occupo della manutenzione del laboratorio. Abbiamo molti più contatti umani di quanto si pensi. Ora è tranquillo, ma quando dieci ricercatori internazionali lavorano qui e poi due classi scolastiche visitano la galleria, arrivata la sera, sei felice di avere un po' di pace e tranquillità. In situazioni come questa, non mi rendo nemmeno conto che siamo in mezzo a una montagna».
Non sei mai veramente solo quaggiù. I dipendenti della centrale elettrica lavorano più indietro nel tunnel, l'ospizio di montagna utilizza l'accesso in inverno per il trasporto del cibo. «Qui siamo come vicini di casa. Se mi manca un attrezzo, posso prenderlo in prestito da quelli della centrale. Devo solo corromperli con dei Nussgipfel (cornetti alle noci)», dice René con un sorriso. C’è persino un signore che viene al laboratorio sotterraneo esclusivamente per avere compagnia. L'elettricista di casa Toni Baer, originario di Schwanden, vicino a Brienz. «Una volta a settimana vengo qui a controllare che tutto sia in ordine. Gestisco una società unipersonale e non ho dipendenti. Mi piace venire quassù e socializzare», dice mentre ripara una presa multipla.
Il laboratorio sotterraneo è come una piccola famiglia. È un'azienda svizzera media. Dimentico che qui siamo centinaia di metri sotto la superficie terrestre, nel cuore delle Alpi svizzere. Potrebbe anche essere una zona industriale in un sobborgo di Zurigo, dove i collaboratori mangiano e scherzano in cucina, dove una volta al mese una persona di buona volontà decalcifica la macchina del caffè e il custode sostituisce la lampadina. È solo quando usciamo dall'ufficio e guardo giù per il lungo e angusto tunnel d'accesso che mi rendo conto nuovamente di quanto sia stretto quaggiù. Quando il portone si alza e la luce naturale mi acceca, sono contento di essere di nuovo fuori. Ho perso il senso del tempo nel tunnel. Ma le cime dorate e splendenti delle montagne lasciano intuire che il sole non è ancora tramontato.
Quando 15 anni fa ho lasciato il nido di casa, mi sono improvvisamente ritrovato a dover cucinare per me. Ma dalla pura e semplice necessità presto si è sviluppata una virtù, e oggi non riesco a immaginarmi lontano dai fornelli. Sono un vero foodie e divoro di tutto, dal cibo spazzatura alla cucina di alta classe. Letteralmente: mangio in un battibaleno..